L’interno come unicuum progettuale
Motivi economici, quali la preponderante diffusione di un mercato contract di alto livello, e motivi psicologici, come la necessità di proporre una “stanza-nido”, totalmente coordinata e capace di accogliere e “consolare” gli abitanti, hanno portato a passare dal disegno del pezzo singolo a quello dell’intero ambiente.
Oggi sono infatti pochissimi i progettisti ancora in grado di procedere, negli interni, per “assemblaggio di differenze”. L’apparato decorativo si presenta quindi come un unicuum indissolubile: il pavimento si riflette nelle finiture a parete, dalle tappezzerie alle verniciature, e queste vengono valorizzate da una sofisticata illuminazione ambientale. Le cromie scelte trovano una immediata continuità nei rivestimenti tessili degli imbottiti (significativo l’incremento della ricerca nel settore dei tessuti). L’oggettistica perde il suo ruolo di aggettivazione a posteriore per diventare una fondamentale dimostrazione di gusto e di cultura, posta in essere contemporaneamente al progetto.
Una grande fluidità progettuale e uniformità d’approccio percorre gli ambienti, suggerendo finiture condivise tra zona living e zona cucina, tra zona notte e spazi acqua-relax (per favore non chiamiamoli più bagni e tanto meno “servizi”). Gli spazi esterni all’architettura (che si tratti di un’abitazione, di un albergo o di un ufficio) acquistano, come abbiamo visto, una dignità assolutamente paritetica rispetto agli spazi interni. Insomma, improvvisamente, ci siamo trovati a dover constatare che gerarchie di valori consolidati (e quindi priorità di acquisto da parte del pubblico) si sono definitivamente modificate.
Sono nate così proposte a cavallo tra dimensioni abitative differenti. La prima e più evidente è quella tra spazi collettivi e situazioni domestiche: l’atmosfera degli uffici e quella del living vengono infatti continuamente in contatto, ad esempio imbottiti dalle linee insonorizzanti, utili senz’altro in contesti pubblici di co-working, trovano un’inedita adozione nelle recenti situazioni di co-housing.
Ugualmente borderline appaiono prodotti che si posizionano sull’ambiguo crinale tra arredo e arte: risposta specifica dell’ambito produttivo all’avanzare incontrastato del fenomeno del “design in galleria” (detto anche, guarda caso, “art design”).
Oltre il mobile, la superficie
La vera rivoluzione 2019, se così vogliamo chiamarla, concerne piuttosto le superfici che non gli oggetti nella loro identità volumetrica. Si è infatti sviluppata a dismisura quella che potremmo battezzare “un’estetica delle superfici”. Si tratta di una progettualità tendenzialmente bi-dimensionale ove i materiali più tradizionali e consolidati, vedi il marmo bianco di Carrara o il legno di Rovere rigatino, così come le laccature neutre, vengono decisamente superati da un proliferare di vene, brecce, macchie, ossidazioni, innesti, intarsi: la superficie cerca il suo riscatto nella ricchezza delle finiture. È una tendenza che, iniziata alcuni anni or sono, si fa oggi dirompente.
Bisogna sottolineare d’altronde come quest’attitudine presenti un portato estremamente positivo nel rilancio di tecniche artigianali e realizzative ormai quasi scomparse, nel recupero di vecchie cave e di essenze lignee dimenticate, nella riscoperta di materiali della tradizione. A un patrimonio di capacità eccelse fanno riferimento in particolare le aziende che lavorano sulla tessitura, alternando sofisticate ricerche d’archivio a performance tecnologiche considerate fino a poco tempo fa impensabili per un tessuto. Continua in parallelo il trionfo del velluto, in ricchissime palette di colori che potremmo definire autunnali: sfumature di rosso (dal rosa cipria al terracotta al sangue di bue), sfumature di giallo (marsala, miele), sfumature di marrone, sfumature di verde (militare, marcio, salvia).
Il tramonto degli archi-designer?
Il concentrarsi del lavoro progettuale sui materiali fa sì che, una volta concluse le fasi di ricerca, condotte nei centri studio e negli uffici tecnici, molto spesso la presentazione dei risultati, che impone ovviamente una grande accuratezza di accostamenti, venga affidata agli stylist piuttosto che ai designer. Si tratta di un cambiamento già in atto da qualche tempo, che è giusto iniziare a codificare, in attesa di verificarne il reale portato e la durata nel tempo. Un’ulteriore conseguenza di questa modifica di passo è l’evidente ridimensionamento delle cosiddette design-star: il marchio e gli skill aziendali hanno infatti assunto un’importanza sempre crescente, a discapito della firma e del protagonismo personale dei designer.
Perfezione/Imperfezione
Riassumendo quindi, possiamo sostenere che le produzioni di design 2019 ci hanno posto di fronte a due ipotesi contrastanti: da un lato persiste un’idea di comfort e di lusso, sovente mediata dagli anni ‘50 e declinata in decor continui e sofisticati. Costruiti non tanto disegnando il singolo pezzo quanto preoccupandosi della resa atmosferica dell’insieme, in continuità con la grande tradizione italiana dell’interior decoration. Dall’altro lato invece si delinea chiaramente uno specifico valore attribuito all’imperfezione e a tutti processi artigianali (artigianato è senz’altro una delle parole più citate in assoluto). Un’unica dimensione pare accomunare le due tendenze ed è il ricorso all’oro. Tutte le sfumature del prezioso metallo sono consentite: dall’ottone invecchiato al luccicore più deciso, dalla foglia stesa a mano alle verniciature da carrozzeria, l’importante è che di oro si possa parlare.